Marina Forte ha svolto un progetto di 6 mesi in Francia presso SOLIDARITES JEUNESSES a Montendre. Ci racconta che cosa ha significato per lei questo viaggio, in termini molto introspettivi e personali.
Imputiamo al crepuscolo l’insondabilità della notte e all’alba il timido bagliore della vita.
Siamo ammiratori di un' ordine primigenio in cui il mondo ci sembra irrevocabilmente spiegato, talmente tanto che il silenzio pare l' unica degna risposta.
Ma nella gratuità dello spettacolo un' antica verità continua a sfuggirci: siamo attratti tanto
dal mistero che si cela nell’ombra quanto dalla promessa che nasce con la luce.
É lento e gentile il passaggio da " potenza " ad " atto ", ma questo racconto sintetizzerà ciò che è stato il mio divenire.
Ci sono voluti sei mesi perché il senso profondo dell’esortazione nietzschiana “Diventa ciò che sei” smettesse di essere solo un enigma intellettuale e iniziasse a tradursi in esperienza vissuta.
Non è stato grazie a domande analitiche, né a percorsi di meditazione o pratiche contemplative. È stato il volontariato a condurmi, inaspettatamente, verso questa comprensione.
È nella dislocazione dell’abituale, nello scarto tra ciò che credevo di essere e ciò che la relazione con l’altro mi restituiva, che ha preso forma — silenziosa ma autentica — una nuova consapevolezza.
Ho vissuto per sei mesi accanto a persone provenienti da ogni angolo del mondo: Messico, Francia, Spagna, Egitto, Marocco, Turchia, Portogallo, Tunisia, Colombia.
Ho vissuto osservando silenziosamente nuovi modi di cucinare, ballare, pregare, ridere, sperimentare , parlare, pensare e creare; nuovi modi di abitare il mondo.
In quel guardare attento ho imparato a disimparare tutto ciò che conoscevo di me stessa, ho lasciato che tutte queste nuove differenze ridefinissero le mie forme interiori e ora la geometria che mi costuisce non ha cambiato solo il mio modo di percepire la realtà, ma di esserci.
Mi sento meravigliosamente arricchita.
Arretiti da questa narrazione onesta e palpitante d'emozioni, non pensiate che sia stato facile, anzi, badate, farsi ombra non è stato un gesto semplice.
Non si tratta di una sparizione, ma di una mutazione.
È un disfacimento lento e silenzioso dei colori consueti, un lasciare spazio alla forma spogliata, ai soli contorni.
Un processo così disorienta, perché ciò che sembrava costituire l’identità — luce, profondità, riconoscibilità — viene messo in discussione.
Diventare contorno significa accettare che l’essenza non è immutabile, ma può ritirarsi, ridefinirsi, sottrarsi alla familiarità.
Vi è forza in ogni atto generativo della natura, disordine in uno rigenerativo, ma l' entropia nient'altro è che una spinta evolutiva.
Sapersi contorni non è mai un approdo confortevole, é un cammino disabitato dove il sé si riscrive senza garanzie.
Ma poi giunge, non immediatamente, né con fragore. Comincia a filtrare nelle fenditure del buio. É una luce tenue, ma pungente, che d'improvviso ti scalda: non si è più ciò che si era, si è ciò che ha attraversato la notte e ne ha trattenuto i segreti.
Ci si accorge di contenere nuovi strumenti con cui affrontare la quotidianità, un sorriso in più, una lamentela in meno, una soluzione nuova, una lingua più armoniosa, uno stereotipo decostruito, una leggerezza sconosciuta.
Restituiti a una visione più ampia cominciamo a vedere la bellezza che prima ci era inaccessibile
e finalmente ne riconosciamo la sacralità.
É il tacito dialogo che ombra e luce tramano
a tener vive le risonanze emotive, eppure,
dimentichiamo spesso che nel farsi ombra si apre un varco: non verso un’identità nuova, ma verso ciò che in noi chiede di essere riconosciuto.